Università Cattolica del Sacro Cuore

Come rilanciare la crescita investendo nella ricerca

di Carlo Cottarelli e Giulio Gottardo

14 ottobre 2020

In Italia la spesa per ricerca e sviluppo è molto più bassa rispetto a quella dei principali paesi avanzati. Stato e imprese investono troppo poco in questo campo, con conseguenze negative di lungo periodo sulla produttività e sulla crescita. Per colmare in parte questa lacuna, il Piano Amaldi propone di allineare, nel giro di 5 anni, gli stanziamenti pubblici per la ricerca al livello tedesco o almeno a quello francese, ovvero portarli da 9 a 20 miliardi annui. Merita particolare attenzione il trasferimento tecnologico, in modo da assicurare che le imprese italiane abbiano accesso ai benefici derivanti dalla conoscenza e dalle tecnologie prodotte nelle università e nei centri di ricerca.

*La nota è stata ripresa da Repubblica in questo articolo del 14 ottobre 2020.   

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Stagnazione e innovazione

Negli ultimi 20 anni l’economia italiana è stata caratterizzata da una prolungata stagnazione, perdendo terreno rispetto agli altri paesi avanzati. In termini di tasso di crescita del Pil reale, nei vent’anni conclusi nel 2019 l’Italia era al 170mo posto su 180 paesi per cui il FMI pubblica dati. Oltre al basso tasso di crescita della popolazione, ha pesato l’assenza di crescita della produttività: nel 2019 il prodotto reale per ora lavorata era allo stesso livello del 2001. Il motore principale della crescita della produttività è l’innovazione, che rende disponibili prodotti migliori e processi produttivi più efficienti. L’innovazione è un fenomeno complesso, tuttavia per innovare sono senza dubbio necessarie risorse e conoscenze. Le risorse destinate all’accumulazione di conoscenza sono la spesa in ricerca e sviluppo (R&S) e provengono dallo Stato, che generalmente finanzia la ricerca di base e quella applicata, e dalle imprese, che si concentrano maggiormente sullo sviluppo sperimentale, ovvero l’introduzione sul mercato delle innovazioni. In pratica la distinzione non è così netta, inoltre, queste fasi sono spesso interdipendenti: la ricerca di base fornisce conoscenze fondamentali per le altre fasi, ogni scoperta apre nuove strade per il progresso scientifico e tecnologico e le persone impegnate in uno di questi ambiti hanno un’elevata propensione a contribuire anche negli altri. In ogni caso, l’Italia ha sempre investito poco in R&S (meno dell’1,5 percento del PIL tra pubblico e privato, contro il 2–3 percento di paesi quali Francia, Germania e Stati Uniti). Anche se recentemente le spese totali in R&S italiane sono aumentate, la distanza da colmare con gli altri paesi avanzati è enorme (Fig. 1).

Il Piano Amaldi e il trasferimento tecnologico

Una proposta per colmare almeno una parte di questa distanza è stata elaborata nel Piano Amaldi, che propone di azzerare la differenza con la Germania per quanto riguarda i fondi pubblici per la ricerca di base e applicata nel giro di 5 anni.[1] Per raggiungere questo obiettivo bisognerebbe aumentare progressivamente la spesa pubblica in R&S fino a quasi 20 miliardi di euro annui (oggi ammonta a circa 9 miliardi), ovvero un aumento superiore allo 0,5 percento del PIL. Un obiettivo meno ambizioso potrebbe essere raggiungere la Francia, arrivando a spendere circa 15 miliardi all’anno.

Uno dei punti principali del Piano Amaldi è il potenziamento del trasferimento tecnologico dalle istituzioni attive nella R&S (università e centri di ricerca) alle imprese. Le imprese italiane, infatti, tendono ad investire meno in R&S rispetto ai concorrenti europei. Questa situazione è in parte dovuta ai settori a minor intensità di conoscenza in cui molte delle nostre imprese operano, tuttavia, anche nei settori ad alta intensità di conoscenza le imprese italiane investono meno delle corrispettive tedesche e francesi.[2] Un altro fattore che determina il livello deludente degli investimenti in R&S delle imprese italiane sono le dimensioni: le spese delle piccole imprese sono minori di quelle delle imprese più grandi. Per esempio, in Germania le grandi imprese (più di 500 dipendenti) investono da sole quasi l’1,7 percento del PIL in R&S, ovvero più di quanto si investe in Italia sommando tutte le fonti di finanziamento pubbliche e private. La presenza di molte imprese piccole e piccolissime (meno di 50 dipendenti) e di poche imprese grandi contribuisce quindi a rendere il tessuto produttivo italiano meno innovativo rispetto agli altri (Fig. 2).

Inoltre, le piccole imprese sono meno propense ad assumere lavoratori altamente qualificati, che sono uno dei canali principali del trasferimento tecnologico. La performance deludente delle imprese in questo ambito si traduce, nel lungo periodo, in una perdita di competitività causata dalla stagnazione della produttività. Potenziare il trasferimento tecnologico dagli enti di ricerca alle imprese è quindi imperativo se si vuole rilanciare la crescita. A questo proposito è importante ricordare che il rendimento degli investimenti in ricerca e sviluppo è estremamente alto (tra il 30 e il 100 percento annuo, secondo alcune stime), in particolare nel lungo periodo e per quanto riguarda la ricerca di base.[3] A fronte di rendimenti così elevati, addirittura la spesa in R&S di paesi come Germania e Stati Uniti sarebbe al di sotto del livello ottimale.

Conclusione

Aumentare gli stanziamenti pubblici per la R&S e rinforzare il trasferimento tecnologico potrebbe avere effetti di medio e lungo periodo estremamente desiderabili, come una crescita economica accelerata, l’inserimento di più giovani altamente qualificati nel mercato del lavoro e un maggior contributo italiano alle sfide del futuro (cambiamento climatico, salute). Le proposte del Piano Amaldi hanno un costo contenuto rispetto alle risorse messe a disposizione con il Recovery Fund europeo e, soprattutto, ben rappresentano la priorità di crescita sostenibile della Commissione Europea.


[2] CNR, 2018, Relazione sulla ricerca e l’innovazione in Italia, Roma, cap. 1 e 6.

[3] Si veda, ad esempio, Jones C. I., Williams J. C., 1997, “Measuring the Social Return to R&D”, Federal Reserve: https://www.federalreserve.gov/pubs/feds/1997/199712/199712pap.pdf .

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